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Il mestiere della sofferenza



In passato ho cercato nuovi contatti e amici tra persone in difficoltà, non realizzate, anche in cattiva salute, così come mi sentivo io. Pensavo che il "male condiviso", l'esperienza della sofferenza provata, potesse rappresentare, oltre che un linguaggio comune, soprattutto la spinta per motivarsi a vicenda mentre si cerca di migliorare la propria vita.

Ho compreso che pensavo in modo errato. Con poche eccezioni, infatti, la mia esperienza è stata che le persone che stanno male spesso vogliono, in un modo o nell'altro, restare attaccate alle loro disfunzioni; non hanno intenzione di cambiare veramente. Sono nella sofferenza e si nutrono di sofferenza.

Non è un giudizio, perché c'è poco da giudicare, in quanto nessuno desidera stare male veramente, ma è una riflessione sulle trappole della sofferenza e su come molto facilmente le assecondiamo. La sofferenza, infatti, può essere persuadente, perché ti dà la scusa per sentirti una vittima e trovare qualcuno o qualcosa a cui dare la colpa per la tua mancanza di felicità, evitando così di affrontare le tue ombre e anche i tuoi sogni.

Non parlo di chi incontra il dolore e, sul momento, ne rimane stravolto. Il dolore è parte della vita, la quale a volte ci porta via ciò a cui teniamo, e allora dobbiamo inevitabilmente attraversare i nostri lutti. Parlo di chi si ostina a sguazzare nella sofferenza, facendone quasi un mestiere.  

Se vuoi uscire dalla sofferenza la prima cosa è accettare lo stato in cui ti trovi. Se sei nella sofferenza, se ti immergi ogni giorno in frequenze di sofferenza, vedilo, accettalo. Accettarlo significa che smetti di combattere questa realtà, smetti di pensare alle cause esterne che l'hanno generata, smetti di opporti a esse, e ti prendi la totale responsabilità di ciò che sei e del modo in cui rispondi alla vita istante dopo istante.

Questi primi passi – accettazione e responsabilità – sono essenziali, eppure molti preferiscono continuare a biasimare le (presunte) cause della loro sofferenza e tenere la loro energia focalizzata su di esse. Preferiscono continuare a sposare la condizione della vittima e, così facendo, trasformano il dolore e l'ingiustizia incontrati lungo il cammino in una sofferenza perpetua, cristallizzandosi in un mondo fatto di compiacimenti negativi, ma almeno hanno una giustificazione per non affrontare il loro profondo. Guardano fuori per evitare di guardarsi dentro.

Come puoi sperare di crescere, se il tuo obiettivo primario è avere una scusa per dare all'esterno la colpa di ciò che sei? Come puoi stare bene, se ti concentri in continuazione su ciò che va male?  Come puoi trasformarti nella migliore versione di te se sei convinto che a cambiare debbano essere gli altri?

Ecco, quel tipo di amici – quelli che fanno il mestiere della sofferenza – in passato mi hanno frenato, risucchiato energie, tenuta su frequenze più basse. Altro che solidarietà. Altro che motivarsi a vicenda. Altro che unire le forze per crescere insieme. Per questo motivo ho preso e sto continuando a prendere le distanze da chi continua a crogiolarsi nel piacere di stare male o comunque non è davvero motivato (o pronto) a portar luce dentro l'esistenza.

L'ambiente circostante e la nostra cultura sono già saturi di frequenze depotenzianti; non ho certo bisogno di aumentarmi il carico. So di avere ancora molte ombre e limiti, e probabilmente rappresento qualcuno di negativo per chi è "più" positivo di me, ma almeno cerco di diventare un poco migliore ogni giorno e penso che devo proteggere questa attitudine a ogni costo.

Intendiamoci: credo sia giusto ed evolutivo interagire con tutti, perché la compassione e la possibilità di imparare da ogni situazione non hanno confine... ma le amicizie, le persone con cui ti amalgami e alle quali dedichi la tua attenzione e il tuo tempo, magari togliendolo ad altre cose importanti, vanno selezionate nel rispetto della tua anima.

Camilla


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Commenti

fiordimattone ha detto…
La sofferenza è una via di redenzione, non l'unica ma la più facile. Chi preferisce, anzichè rendersi consapevole, lasciare che la barca navighi senza nocchiero è giocoforza destinato a diventare vittima della sofferenza. Il libero arbitrio (non la libertà perchè di questi tempi è solo una chimera) ci obbliga ad essere pienamente responsabili individualmente, ma anche a livelli più grandi di società come le nazioni, di essere autori del nostro destino, anche se negativo. Di questo ne ha parlato ampiamente Rudolf Steiner!

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